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Storia dei morti viventi di George Romero

30 ottobre 2020 | cristina
Storia dei morti viventi di George Romero

Vi raccontiamo la storia del monumentale romanzo sugli zombi di George Romero, completato da Daniel Kraus e pubblicato da La Nave di Teseo

di Cristina Resa

Era il 1968. L’anno delle rivoluzioni, dei grandi movimenti giovanili e poi operai, delle proteste contro la società dei consumi, la Guerra del Vietnam e le discriminazioni sociali e razziali. L’anno della morte di Martin Luther King. Era il 1968 e negli Stati Uniti usciva La notte dei morti viventi di George A. Romero, un film destinato a cambiare un intero immaginario, lasciare un segno indelebile nella cultura popolare. A suo modo, fare una rivoluzione.

Dopo cinquantadue anni, arriva I morti viventi, libro che espande e, in qualche modo, chiude il cerchio. Un’epopea di 688 pagine, portata in Italia da La nave di Teseo, a cui George Romero ha lavorato per anni. 

Il regista e sceneggiatore è purtroppo scomparso il 16 luglio 2017, lasciando l’opera incompiuta. È così completata da Daniel Kraus, collaboratore di Guillermo del Toro, autore del romanzo La forma dell’acqua e, soprattutto, profondo conoscitore del lavoro di Romero.

Vi parliamo del viaggio di un autore che ha ridefinito le categorie del fantastico e del mostruoso e aperto il genere, come mai prima di allora, all’indagine socio-politica. Una storia iniziata mezzo secolo fa nei cinema, che si conclude oggi in tutte le librerie.

Tutto inizia e finisce con I racconti di Hoffmann

«Comincia e finisce con I racconti di Hoffmann», ci dice Daniel Kraus, nella postfazione al romanzo I morti viventi. «Non solo il libro […], ma forse l’intera carriera di George Andrew Romero, e per estensione anche la mia». 

Seppur sia indubbio che grandi classici del fantastico anni ‘50 come Io sono leggenda di Richard Matheson (1954) o La cosa da un altro mondo di Nyby e Hawks (1951) abbiano ispirato l’universo narrativo di Romero, Kraus riconosce nella pellicola in tre atti del 1951 diretta da Powell e Pressburger il primo modello del cineasta. Non tematico, ma metodologico. 

Tratto dall’opera Les Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, questo «fantasmagorico esempio di come un budget limitato può stimolare il genio» ha, secondo Kraus, insegnato a Romero a «usare la penna». 

E in effetti, tutto nacque dall’idea di realizzare un piccolo film a bassissimo costo insieme agli amici John Russo e Russell Streiner, con i quali Romero aveva fondato la società di produzione Image Ten negli anni ‘60.

Ma che tipo di film? La scelta ricadde sull’horror perché si trattava di un genere popolare e facilmente vendibile. Anche quel bianco e nero in 35 mm tanto iconico venne scelto per ragioni pratiche: questo tipo pellicola era più economica. Spesso i capolavori, semplicemente, “succedono”. 

A line of undead 'zombies' walk through a field in the night in a still from the film, 'Night Of The Living Dead,' directed by George Romero, 1968. (Photo by Pictorial Parade/Getty Images)
Scena tratta da La notte dei morti viventi (1968)

La notte dei morti viventi

Inizialmente, Romero e Russo scrissero la prima bozza di sceneggiatura dal titolo Monster Flick, commedia horror con adolescenti e alieni. In una seconda versione più spaventosa, gli alieni riesumavano i cadaveri per utilizzarli come nutrimento. Nella sceneggiatura definitiva dal titolo Night of the Flesh Eaters (La notte dei mangiatori di carne), scelsero infine di concentrarsi sui morti che, rianimati, si nutrivano della carne dei vivi.

La storia seguiva un gruppo persone, tra cui il protagonista Ben (Duane Jones), intrappolate in una casa nei pressi di un cimitero della Pennsylvania, nel tentativo di resistere all’assedio dell’orda di morti redivivi. 

La notte dei morti viventi venne girato con soli 114.000 dollari a Pittsburgh, dove si svolse anche la premiere il 1º ottobre 1968. Divenne istantaneamente un film di culto. Incassò 18 milioni di dollari in tutto il mondo, due milioni di lire solo in Italia, dove uscì nel 1970. 

La storia distributiva di La notte dei morti viventi è legata a un aneddoto interessante che aiuta a riflettere sul rapporto tra impatto sull’immaginario popolare e diffusione di un’opera. Nel passaggio dal titolo Night of the Flesh Eaters a quello attuale, infatti, la società di distribuzione Walter Reade Organization dimenticò di apporre il simbolo del copyright sullo schermo. 

Il film, dunque, divenne di pubblico dominio negli Stati Uniti e Romero finì per guadagnare molto meno di quanto avrebbe sicuramente meritato. Tuttavia, proprio perché privo di costi, La notte dei morti viventi venne proiettato ovunque, e anni dopo stampato in svariate edizioni in home-video, e visto da tutti. 

Lo stesso Kraus, nella sua nota al romanzo, racconta: «Il primo film che ricordo di avere visto è stato La notte dei morti viventi. […] diventò per me uno spazio sicuro. Mi era d’aiuto il fatto che il film fosse sempre in programmazione». 

Ma non si tratta solo della facilità con cui il film circolò, ma della sua straordinaria capacità di rivolgersi a pubblici di età e esperienze diverse. Romero aveva girato un ottimo b-movie di intrattenimento, ma allo stesso tempo un’opera a più livelli di lettura. Autoriale, critica, rivoluzionaria. 

Storie di ghoul, zombi e rivoluzione

Il mito contemporaneo del morto vivente creato da Romero nel 1968 ha sicuramente un’innata forza comunicativa e sovversiva. 

All’inizio non c’era nemmeno una vera intenzione di reinventare la figura dello zombi haitiano, la vittima di uno stato di letargia simile alla morte della tradizione voodoo, che aveva ispirato horror di culto come L’isola degli zombies di Victor Halperin (1932, il primo film del filone) e Ho camminato con uno zombi di Jacques Tourneur (1943). 

Anzi, in un primo momento Romero aveva chiamato i suoi morti viventi ghoul, come gli spettri dei romanzi settecenteschi ispirati dal folklore islamico. Mostri mangiatori di carne, tornati dalla morte.

«Non li ho mai considerati zombi» ha spiegato Romero in un’intervista del 2008. «Ho preso l’idea da Io sono leggenda.[…] Cercavo qualcosa che rappresentasse un cambiamento sconvolgente. Qualcosa che rimanesse per sempre. Ho pensato: e se i morti smettessero di essere morti?». 

Tuttavia, gli stessi spettatori cominciarono ben presto a usare la parola di origine haitiana per riferirsi ai mostri del suo film. Di fatto, il termine venne pronunciato per la prima volta nel secondo capitolo della saga, Dawn of the Dead, il cui titolo internazionale, scelto dal produttore e co-autore Dario Argento, fu, appunto, Zombi

Che vogliate chiamarlo ghoul o zombi, il morto vivente è certamente una figura che si presta all’allegoria. Lo dicevamo in apertura, in anni di tensione e conflitto Romero decise di costruire un articolato discorso socio-politico usando un genere considerato, a torto, “basso”. Lo fece, per giunta, in un film in cui l’eroe era interpretato dall’attore afroamericano Duane Jones. 

Difficile non vedere, in La notte dei morti viventi, la feroce critica contro la società americana degli anni sessanta, la Guerra del Vietnam e, soprattutto, il razzismo interno del Paese.

Nel corso degli anni, i film della saga hanno assunto via via nuovi significati. Zombi (1978), ambientato in un centro commerciale, rifletteva sulla società dei consumi. Il giorno degli zombi (1985) criticava la politica militarista della presidenza Reagan. 

La terra dei morti viventi (2005) guardava al governo Bush, denunciando la sopraffazione sui popoli più poveri e la disuguaglianza sociale che affliggeva il paese. Le cronache dei morti viventi (2007) affrontava il tema della manipolazione mediatica. Infine, Survival of the Dead (2009) portava avanti un’indagine più intima sulla natura umana e sul concetto di homo homini lupus.

«Gli zombi rappresentano la rivoluzione» diceva Romero al Noirfest nel 2007. «Fin dall’inizio ho voluto farne un fenomeno straordinario e mostrare che la gente non cambia per adattarsi. Ma la maggior parte delle mie storie sono storie umane o, se sono storie politiche, sono istantanee dell’epoca in cui sono stati girati i film». 

Anche il romanzo, I morti viventi, nasce dallo stesso spirito, ma allarga l’orizzonte temporale. È l’ultimo lascito di un autore che avrebbe avuto tanto da dire anche sull’attualità che stiamo vivendo. Riesce ancora a farlo, lanciando da queste pagine un invito a rimanere vigili: «Continuate ad avere paura». 

I morti viventi, un romanzo in tre atti

In più di cinque decenni, Romero realizza sei film di zombi. Tutti molto diversi e attuali. Ma questo non basta, perché molte idee, sia per ragioni di budget che per scelte produttive, non sempre hanno trovato spazio nei film.

Romero, tuttavia, è anche scrittore. Tra le varie ispirazioni per la trilogia originale – La notte, Zombi e Il giorno – pare che ci fosse anche un racconto allegorico intitolato Anubis, scritto dal regista a venticinque anni, mai pubblicato e ormai perduto. Scrivere un grande romanzo sull’argomento deve essergli sembrato naturale. Dopotutto, la narrazione su carta non ha limiti di budget

George Romero lavorò al romanzo per oltre un decennio, finché non gli fu diagnosticato il tumore terminale che lo ha portato via in pochi mesi. Era il luglio 2017 e un mese dopo la sua scomparsa, Daniel Kraus ricevette la telefonata dalla moglie Suzanne Desrocher-Romero e dal manager Chris Roe. Volevano che completasse l’opera, che mettesse ordine nelle centinaia di pagine scritte, appunti, vecchie lettere.

Allora, Kraus, ispirato a diventare scrittore proprio dal lavoro di Romero, si è improvvisato detective. Voleva omaggiare la memoria di un autore che ammirava dalla più tenera età, mettersi al suo servizio.

Ha cominciato a seguire ogni traccia. Ha persino scoperto che già nel 2000 Romero aveva aperto un sito web per vendere, attraverso sottoscrizione, un romanzo a puntate dal titolo The Death of Death, di cui aveva scritto solo due capitoli. 

Kraus ha riguardato i film, letto le sceneggiature, analizzato le interviste e creato una cronologia romeriana precisa, in grado di coprire i primi cinque anni della pandemia zombi. Grazie a questo lavoro di ricerca febbrile, circa la metà di I morti viventi è attribuibile direttamente a Romero. Kraus ha poi unito i punti e riempito i buchi, provando a pensare come Romero.

Il romanzo inizia dal principio. Dal quel primo corpo che si rianima sotto gli occhi dei due medici che stanno eseguendo l’autopsia. È ambientato, come succede in ognuno dei film, nel mondo contemporaneo e copre un lasso di tempo di quindici anni. È un libro che contiene le storie di personaggi diversissimi tra loro. 

C’è, ad esempio, un’adolescente che vive in un parcheggio per roulotte e deve difendersi da amici e parenti appena resuscitati. Un timoniere della Marina che si nasconde dai commilitoni morti, mentre un fanatico predica una nuova religione. Un giornalista televisivo che continua a trasmettere senza sapere se ci sia ancora qualcuno a guardarlo. Un dipendente federale affetto da autismo che cerca di raccogliere dati per un futuro che potrebbe non arrivare mai.

I morti viventi sembra l’epopea su larga scala che Romero non ha mai potuto rappresentare al cinema per motivi di budget. Come I racconti di Hoffmann, è una storia in tre atti – Nascita, vita e morte della Morte – in cui convivono macrocosmo e microcosmo, affreschi della civiltà al collasso e intimi ritratti dei sopravvissuti.

E anche se, di fatto, il libro è in buona parte scritto da Daniel Kraus, riesce restituire lo spirito di George A. Romero, toccando temi esplorati dal regista attraverso la figura del morto vivente: come l’umanità reagisce a una crisi? Cosa rende gli esseri umani diversi dagli zombi? Domande che possono farci riflettere sul nostro presente e, soprattutto, sul futuro.

Immagine di copertina tratta da Zombi (1978)