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Ingram, la sesta delle Big Five dell’editoria

13 dicembre 2022 | cristina
Ingram, la sesta delle Big Five dell’editoria

Un’azienda familiare al crocevia del book business globale.

di Raffaele Cardone

Alla fine, l’acquisizione di Simon & Schuster da parte di Penguin-Random House, rispettivamente la più piccola e la più grande delle Grandi Cinque, le “Big Five” dell’editoria globale di varia, non s’avrà da fare. Con una sentenza che tappa la bocca a tutti, il Department of Justice si è pronunciato contro un’operazione industriale che, a suo vedere, avrebbe rappresentato una turbativa del mercato (i dettagli piccanti sono qui). Sembra quindi che Simon & Schuster, in vendita da oltre vent’anni, non la possa comprare nessuno fra quelli che vorrebbero e potrebbero farlo – ovvero altre big dell’editoria -, perché si esporrebbero agli stessi principi giuridici. È possibile che si facciano avanti altri soggetti anche se l’editoria di varia non è abbastanza redditizia per gli appetiti dei fondi di investimento, nonostante S&S sia un’azienda con ottimi profitti. Dulcis in fundo, la holding proprietaria di Simon & Schuster, il potente gruppo mediatico Paramount Global, ha subito abbandonato ogni tentativo di impugnare la sentenza, dichiarando di voler cercare un nuovo acquirente. E chiede a Bertelsmann il salato risarcimento di 200 milioni di dollari, pattuito nel caso l’acquisizione non fosse andata in porto. La Authors Guild, il potente sindacato degli scrittori americani, esulta. Così vanno le cose oltreoceano. Tant’è.

Le Big Five per adesso rimarranno tali, ma c’è una sesta azienda che dovrebbe far parte a pieno titolo dell’élite editoriale globale. È discreta, sobria, con il gene dell’innovazione ma sempre lontano dalle seduzioni tecnologiche; un’azienda rimasta saldamente legata alla principale esigenza di tutta la filiera editoriale: fare in modo che i libri – in qualsiasi formato- arrivino ai lettori, nel minor tempo possibile e al miglior costo possibile. La Vergne è una piccola cittadina a venti miglia da Nashville, Tennessee. È la sede di Ingram Content Group, un protagonista dell’editoria americana che in tre decenni ha trasformato il modo di intendere il book business. Negli anni Sessanta la famiglia Ingram iniziò a investire nei trasporti fluviali, grazie alla fortuna accumulata dal patriarca Bronson con il commercio del petrolio. Negli anni Settanta si mise nella distribuzione libraria quasi per gioco: acquistata la Tennessee Book Company, Ingram creò un servizio di distribuzione locale di testi scolastici, perché quantità troppo esigue non erano prese in considerazione dalla distribuzione delle grandi case editrici.

Nel corso dei decenni successivi, surfando sugli alti e i bassi dell’espansione, della contrazione e del fallimento delle grandi catene librarie americane (Barnes & Noble, Books-A-Million, Borders ecc.), della nascita di internet e dell’e-commerce, dell’ebook, degli smartphone, dei tablet, di Amazon e quindi del mercato del libro elettronico e del self publishing di massa, Ingram cresce a livello nazionale e “impara”, anche sbagliando, dal mercato. Al timone sempre un nome di famiglia; prima Martha, moglie di Bronson, e da oltre vent’anni il figlio John. Negli ultimi scampoli dello scorso secolo, alcune acquisizioni strategiche, fra le quali la distribuzione del Gruppo Perseus e vari rami d’impresa di altri distributori con una certa stazza, spingono Ingram a investire nel pionieristico e rischioso programma di print-on-demand per il quale viene creata una società ad hoc: Lightning Source.

La Lightning Source

L’idea, che inizia a prendere forma nel 1996, è che il libro vada prima venduto e solo poi fabbricato, e quindi consegnato nel minor tempo possibile, risolvendo almeno in parte i costi di rese e di magazzino. Insomma, la pietra filosofale dell’editoria moderna. Per far questo occorre però un archivio digitale, una piattaforma informatica molto complessa, sofisticate macchine per la stampa digitale e una logistica impeccabile. Ci vorranno una decina d’anni di investimenti in ostinate sperimentazioni per mettere a punto il tutto.

Alla fine degli anni Novanta, questo spirito imprenditoriale, creativo e con i piedi per terra, è protagonista di un interessante siparietto che si può intendere come un segnalibro nella storia del book business: Ingram, in cerca di un partner di grosse dimensioni, fa molto gola a Bertelsmann, tutta concentrata sul far crescere la propria filiale americana Random House. E ancor di più a Barnes&Noble (oggi la più grande catena di librerie statunitense) che nel 1998 mette sul piatto 600 milioni di dollari, una bella cifra per l’epoca. Barnes&Noble ha bisogno di Ingram per varie ragioni: perché sta per quotare in borsa il proprio sito di e-commerce e, si dice, anche perché ha intuito il potenziale della neonata Amazon nell’altrettanto neonato commercio elettronico. In altre parole, vuole assolutamente impedire che la stessa Amazon ci metta le mani sopra. Ma l’annuncio di questa acquisizione “verticale”, la più grande catena libraria che ingloba il primo distributore, solleva un putiferio.

 

Si mette di mezzo l’American Bookseller Association che fa pressione (con 125.000 firme) sulla Federal Trade Commission (l’autorità antitrust), la quale mesi dopo fa capire alle parti che non approverà l’acquisizione: i due, insieme, avrebbero una posizione dominante e Barnes&Noble acquisirebbe il potere di tagliar fuori la concorrenza (le altre catene e le librerie indipendenti) dal mercato. Il progetto viene cancellato. La mancata acquisizione è anche l’occasione per rilanciare Ingram con nuovi progetti innovativi, fatto piuttosto raro in un’industria particolarmente conservativa come quella del libro. Ma il gene dell’innovazione è pulsante, tanto che già nell’epoca predigitale Ingram era stata la prima nel mondo a distribuire settimanalmente a librerie e biblioteche il catalogo aggiornato su microfiches dei libri in commercio. Ingram entra quindi in una nuova epoca e si reinventa, a partire da quello che sa fare bene: distribuzione, promozione, servizi anche per quell’editoria che compete con i grandi gruppi, a tutti i livelli e sugli stessi canali di vendita.

Ingram oggi

Oggi Ingram è il principale grossista e distributore statunitense, la prima azienda di print on demand e l’unica in grado di produrre un ricco bouquet di servizi coordinati. Negli ultimi anni, però, il grosso dell’attività è riconducibile proprio ai cosiddetti new businesses, che rappresentano il 64% del suo giro d’affari. Una storia che parte proprio dai primi anni Duemila. Di che si tratta? Servizi editoriali coordinati, distributivi, gestionali e di stampa. Per fare un paio di esempi, la sola Lightning Source garantisce la stampa on demand di un catalogo di 20 milioni di titoli; a questa è connesso il Guaranteed Availability Program dedicato ai rifornimenti delle librerie (soprattutto quelle indipendenti), e IngramSpark, il ramo d’impresa lanciato nel 2013 e dedicato al self-publishing in tutte le sue forme: trattamento del testo, stampa, ebook, distribuzione sulle principali piattaforme, dunque metadati, marketing, promozione e gestione.

Nel 2021 Ingram ha raggiunto i 2 miliardi di dollari di fatturato (raddoppiato in soli dieci anni), ovvero la taglia di Hachette, (il secondo supergruppo dell’editoria globale di varia). E anche se non è una casa editrice in senso stretto, ne esprime quasi tutte le funzioni gestendo, con varie formule ad hoc, circa 600 sigle editoriali indipendenti, di piccole e medie dimensioni. Si può considerare una sorta di metaeditore 3.0 che, attraverso le proprie specifiche attività, gioca un ruolo imprescindibile tanto quanto Amazon.

«L’Ingram di oggi raggiunge ogni angolo del settore librario globale» chiosa Mike Shatzkin, uno tra i più acuti osservatori del mercato americano e dell’editoria internazionale. «Non è un’iperbole dire che ogni editore, ogni libraio e ogni biblioteca del mondo fa affari con Ingram». Come grossista, Ingram trasporta i libri di tutti ed è il distributore principale per quelli pubblicati da centinaia di editori. Il repository (data base) di risorse digitali CoreSource, che invia i file digitali dei libri per fornire ebook o libri stampati in tutto il pianeta, è il più grande del mercato globale della varia. Tutto questo senza perdere nella capacità di “distribuzione per conto terzi” – lo si è visto nel periodo pandemico – ovvero la consegna di libri “a casa” per conto di qualsiasi libreria, compresa Amazon. Durante la pandemia, dietro ogni e-commerce librario, c’era Ingram, e la metà dei libri nella bestseller list del New York Times era distribuita o stampata da lei.

Shatzkin e Keel Hunt, autore di una recentissima biografia aziendale, per nulla celebrativa, descrivono Ingram come seria, avventurosa ma non avventuriera, fatta di persone gentili e preparate, niente a che vedere con la nervosa competizione interna che agita molte grandi aziende a scapito della qualità dei servizi. «Non ho mai incontrato qualcuno (di Ingram) che fosse in qualche modo difficile da gestire» chiosa Mike Shatzkin «E ciò che mi ha sempre impressionato di più in tutti questi decenni, è che hanno condotto la loro attività senza alcun accenno di prepotenza (anche quella educata e sottile) che è endemica in tutte le aziende quando i grandi clienti trattano con i piccoli fornitori. Sono implacabilmente efficienti e danno valore all’eccellenza operativa. Sono anche molto civili e apprezzano il fatto di essere gentili.» Sembra quasi di sentir parlare della Olivetti di una volta.

Visibilità e disponibilità

La storia e l’attività di Ingram Content Group ci è utile per fare il punto sui grandi snodi che l’editoria globale sta affrontando, al di là degli entusiasmi per la crescita dei fatturati di alcuni mercati, compreso il nostro: se bastasse una pandemia per creare dal nulla nuovi acquirenti e lettori dovremmo veramente affidarci alle prossime varianti del Covid… Torniamo al mercato americano – nel bene e nel male un grande terreno di sperimentazioni e tendenze che inevitabilmente arrivano in Europa – e a come Ingram ha affrontato i due snodi principali di quest’epoca editoriale: discoverability (visibilità) e avoidability (disponibilità), i termini sui quali si incardina il dibattito professionale d’oltreoceano.

In altre parole, è chiaro che la competizione tra titoli cresce in modo esponenziale, così come cresce la competizione tra diversi tipi di lettura (profonda o meno), di forma e contenuto diverso; ed è altrettanto evidente che sono pochissimi – tra medi e piccoli editori- coloro che possono sentirsi almeno temporaneamente protetti dalla loro audience: un termine ormai usato di frequente – e a ragione – che definisce la nostra epoca editoriale e sostituisce il concetto di “lettorato fidelizzato o fidelizzabile”. Inoltre, è sempre più tangibile la pervasività dei concorrenti della lettura nel tempo libero. Hanno tutti un nome: serie tv, video streaming, social, videogiochi e tutto ciò che rimane disponibile sugli schermi. Decine di brand, da Netflix ai potentati dei videogame, investono molto e con efficacia nella discoverability dei propri titoli (una frazione, in termini numerici, delle novità e del catalogo dell’industria libraria), fatto che li rende concorrenti ancora più temibili nel mercato dell’attenzione e dei consumi culturali. Facciamocene una ragione: la lettura non è affatto morta e neppure i libri, ma libri e lettura sono oggi solo una fra le tante attività culturali disponibili nel tempo libero.

Arrivare a essere notati dal proprio pubblico potenziale, sia esso un lettore o un libraio o un influencer, inizia a chiedere competenze più raffinate e una conoscenza del mercato editoriale che spesso travalica la prospettiva nella quale si muove un social media manager; così come interpretare i dati di mercato o negoziare con le piattaforme dell’e-commerce è il più delle volte inaccessibile al commerciale/marketing di un editore medio e piccolo. Ed è qui che entra in gioco Ingram. La cosiddetta avoidability è la disponibilità del libro cartaceo, dell’ebook o dell’audiolibro là dove c’è il potenziale acquirente (su qualsiasi luogo fisico e su qualsiasi piattaforma), fatto tutt’altro che banale in un mercato sempre più complesso e frammentato, dove il costo di questi servizi, sia in termini di competenza/efficienza sia di costi di back office e distributivi, è una voce del conto economico cruciale per quegli indipendenti con margini ridotti all’osso, praticamente tutti.

Le nuove strade dell’editoria indipendente

Ingram, va da sé, non è la sola a fornire questa tipologia di servizi: i suoi concorrenti sono, per esempio, grandi aziende come OverDrive e Baker & Taylor, o le centinaia di start up (1300 negli ultimi 15 anni), grandi e piccole, perlopiù poco consapevoli non solo di cosa sia il proprio mercato editoriale, ma di cosa sia un mercato editoriale tout court. Dunque, il gruppo di La Vergne ha dalla sua la conoscenza sedimentata del mercato (ovvero esperienza pluridecennale), il fiato finanziario per investire in innovazione e tecnologia, un grande potere negoziale, una rete distributiva a detta di tutti molto efficiente, e personale specializzato sia nel marketing online sia nelle relazioni con le piattaforme di e-commerce. Ingram, inoltre, è molto stimata anche in quel mercato-nel-mercato che si identifica nell’editoria e nelle librerie indipendenti, ovvero in piattaforme come IndieBound (promossa dall’American Bookseller Association) o Bookshop.org, oggi diventate il vessillo di una parte delle librerie locali nel circuito indie e ambientalista.

Foto di Pj Accetturo – Unsplash

Indipendente, di nome e di fatto, è anche il self-publishing, un segmento di mercato di enormi proporzioni e dalle cui dinamiche c’è molto da imparare. Negli States rappresenta oltre il 50% degli ebook e dei libri stampati on demand, e accoglie libri scolastici assemblati, pubblicazioni aziendali, manualistica di ogni tipo oltre a quel torrente della vanità autoriale che sembra destinato a lasciare un segno nell’editoria del futuro e nella fiction di genere. In questo sorridersi d’eventi, la tenuta del libro cartaceo e delle librerie può indurre gli editori in vari pregiudizi (bias) cognitivi, come quello dello “status quo” (non decidere, non prendere in considerazione formule diverse da quelle già praticate), e della “trappola dell’orizzonte temporale”: concentrarsi troppo sul profitto immediato trascurando strategie a lungo termine, quelle che chiedono riflessione, innovazione e investimenti.

In questo senso i servizi di Ingram offrono, oltre alla consulenza, anche un catalogo di conversazioni, interviste, video di chiacchiere professionali, proprio come si farebbe fra colleghi, con questo scopo: una sorta di educazione professionale permanente, informale, che fornisca elementi per decidere, senza alcun bisogno di nominare questo o quel servizio offerto dall’azienda. Di fronte a un mercato editoriale che non è mai stato così instabile, dove esplodono fenomeni imprevedibili come il successo dei manga, TikTok o la penuria e l’impennata dei prezzi della carta, sperimentare nuove strade e fare meglio quello che si sa già fare è un’urgenza soprattutto per l’editoria indipendente. Avendo ben chiaro che bisogna muoversi in fretta e con una certa determinazione per non cadere in un’altra trappola dell’orizzonte temporale. Perché «Nel lungo termine saremo tutti morti», diceva, ironico, John Maynard Keynes ai liberisti che sostenevano che tutto, nel lungo termine, si sarebbe sistemato da solo.

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In alto, foto di Srdjan Ivankovic – Unsplash