Nuova edizione per l’epopea dello sgombero del Leoncavallo. E nuova edizione pure per lo sgombero.
di Paolo Soraci
E così, a quasi dieci anni dalla prima pubblicazione, e giusto in tempo per il nuovo sgombero del Leoncavallo, torna il coinvolgente e quanto mai attuale romanzo di Bruno Segalini, Fiamme e rock’n’roll (Shake Edizioni). Per chi non lo avesse letto a suo tempo sarà una gran bella sorpresa: lo sgombero del Leoncavallo, il primo, il 15 agosto del 1989, con corredo di scontri, molotov e fughe sui tetti, raccontato da un “eroe per caso”, presente e partecipe solo perché con il gruppo di cui era cantante e chitarrista, i Pila Weston, era nel centro sociale milanese per delle prove. Il racconto dei fatti, complice il punto di vista di Fabio, basterebbe per fare di “Fiamme” una piccola pietra miliare generazionale, ma nel libro c’è di più, ci sono le voci e le storie del quartiere e della città, dai giovani alle Mamme del Leoncavallo, e c’è (ma nasce dalle cose, dai percorsi concreti delle persone) il ritratto di una città al centro di cambiamenti epocali, allora come oggi.

E allora bene han fatto gli Shake (ma ne sbagliano mai una?) a impreziosire questa edizione con un testo che si affianca all’affettuosa introduzione che Sandrone Dazieri aveva scritto per la prima edizione. La novità è l’intervista che la rivista Decoder fece all’indimenticabile Primo Moroni all’indomani dello sgombero. Passata la prima sensazione di stellare distanza dai fatti e dai “modi” linguistici, l’analisi di Primo si rivela tanto lucida quanto priva di pregiudizi, e soprattutto lontana anni luce da ogni tentazione di semplificazione ideologica. Sia nei confronti dei diversi attori del movimento, sia, aprendo e tanto, nei confronti della modernità incombente e persino della posizione – variegata e dialettica, e chi l’avrebbe detto – dello stesso Partito Comunista. Sono passati trentasei anni da quell’intervista, ma molti dei suoi passaggi non rivestono solo un valore storico, riuscendo a dirci ben più di qualcosa anche di questa nostra faticosa postmodernità.
Tutte cose valide allora come oggi, tutte cose che danno corpo e sostanza alla discussione sui centri sociali (Leonka in testa) come centri di creazione, elaborazione, diffusione di una viva “cultura dal basso”. Avendo però chiara una cosa: quella cultura “dal basso” è diventata la musica che ha dettato il ritmo degli ultimi decenni, i graffiti che segnano i muri dei tanti Leoncavallo in giro per il mondo sono diventati il nostro sguardo sul mondo e i loro autori vengono oggi inseguiti – da Keith Haring a Banksi, a Shepard Fairey – dai curatori di mostre e musei, il pensiero teorico elaborato sotto quelle volte è spesso e volentieri tracimato nelle aule delle accademie.
Forse il Fabio di quella mattina del 1989 non ci pensava troppo a cosa era e cosa sarebbe diventata la “cultura dal basso”, era troppo occupato a farla, e a difenderla dal tetto di una ex fabbrica. Ma dopo trentasei anni siamo ancora qui a interrogarci e ad ascoltare la sua storia.