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Canto di D’Arco

Antonio Moresco

Attesissimo, approda finalmente in libreria l’immane, poderoso, travolgente Canto di D’Arco di Antonio Moresco (da SEM, va da sé). Chiudete in una stanza Philip K. Dick e Louis-Ferdinand Céline, costringete lo Jena Plissken di “1997 fuga da New York” a leggere tutto Thomas Pynchon, mettete in mano al Rick Dekkard cacciatore di androidi i romanzi di Witold Gombrowicz, prendete Kill Bill vestita da sposa e infilatela in un mondo parallelo che ha tutto l’aspetto di una Los Angeles come la descriverebbe Agota Kristoff. E ancora non basterà.

Da grande scrittore e visionario qual è, Moresco si misura con generi letterari come il thriller e la fantascienza, ma anche con linguaggi extraletterari, giocandosela con la visività così diretta, così coinvolgente del cinema, delle serie televisive, del fumetto.

Da questo ribollente, sorvegliatissimo calderone, esce la figura di D’Arco, da tre anni in forza alla polizia della città dei morti. Perché anche lì c’è una polizia, anche lì continuano a esistere il male, il crimine, il dolore. D’Arco però, deve, e per lui è ancora peggio, tornare nella città dei vivi, per indagare sulla scomparsa di un numero sempre più preoccupante di bambini. Scoprirà che la città dei vivi è preda di serial killer e pedofili, violentatori e sette di assassini come il “popolo dell’amore”. Lo accompagnano la fidanzata Quella e un bambino muto il cui collo è attraversato da una cicatrice a forma di collana di spine. Fino a incontrare il buio e la luce, e le creature che in essi vivono.

Thriller metafisico, vertice iperletterario nutrito di tutti generi, questo romanzo d’avventura è prima di tutto un’avventura per il lettore, che attraversa le sue più di settecento pagine in stato di trance, vivendo una vita parallela più vivida della quotidianità cui dovrà tornare una volta chiuso il libro. E d’altra parte, non è questo che chiediamo alla letteratura ogni volta che le sacrifichiamo una parte del nostro preziosissimo, irrecuperabile tempo di vita?