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La valigetta dell’accordatore

Angelo Fabbrini

Quanti pezzi compongono la meccanica di un pianoforte? E quanto può variare il suono di uno strumento a seconda di come sono registrate le componenti della sua meccanica, del loro stato di usura, delle condizioni di temperatura e umidità dell’ambiente – anche chiuso – in cui si terrà il concerto, delle caratteristiche del programma in cartellone, dello stile interpretativo e del tocco dell’interprete, quando non del suo contingente umore? Tanto, tantissimo, enormemente man mano saliamo nella scala dell’eccellenza dell’interprete e del suo pubblico.

Tutte queste variabili, infinitesimali per le orecchie di noi comuni mortali, poveri ascoltatori di buona volontà e scarsissima competenza musicale, ma decisive per i sommi interpreti e per i sommi cultori della musica, sono il dominio dell’accordatore. Ed è per questo che il rapporto tra l’accordatore e il singolo interprete può diventare strettissimo, pressoché esclusivo.

Come quello che per decenni legò Angelo Fabbrini e Arturo Benedetti Michelangeli. Angelo Fabbrini, classe 1934, nato a Pesaro ma pescarese da decenni, è forse l’accordatore di pianoforti più famoso al mondo. I suoi servigi sono stati richiesti da Alfred Brendel e András Schiff, da Martha Argerich a Maurizio Pollini. Nella sua carriera ha acquistato e rivenduto oltre 200 pianoforti, in larga maggioranza gran coda Steinway, ognuno acquistato e “preparato” pensando a uno specifico pianista. Ancora oggi possiede decine di strumenti che mette a disposizione degli artisti nei teatri di tutto il mondo.

Ancora oggi gira il mondo per accompagnare pianisti e pianoforti. E per accordare entrambi, verrebbe da dire leggendo le sue affascinanti memorie, raccolte nel prezioso volume La valigetta dell’accordatore (Passigli). Aneddotica e tecnica si alternano e si intrecciano, dando vita a un ritratto corale, alla storia di una ossessione collettiva che accomuna interpreti, costruttori e accordatori uniti tutti nella ricerca del suono perfetto della risonanza ultima e definitiva. C’è la volta che a Vicenza Alexis Weissenberg si lamenta dei tasti neri troppo alti, cosa di decimi di millimetro. Fabbrini rimedia abbassandoli il più possibile senza riuscire a eliminare del tutto il difetto… passa un anno, siamo a Milano, alla Scala, e Weissenberg si siede davanti al pianoforte e al solo sfiorare i tasti si gira scocciato verso il povero Fabbrini ricordandogli che quel piano non gli piaceva. C’è la volta che Benedetti Michelangeli gli fa smontare infinite volte la tastiera perché un tasto suona male e si scopre che nel rullo di quel martelletto la pelle è stata incollata per il verso contrario e oppone una resistenza allo spingitore diversa dagli altri. C’è la volta che Fabbrini fa svuotare una piscina che con la sua umidità altera il suono del gran coda di casa e quella in cui sega le gambe della panca di Daniel Barenboim, la volta che torna da New York dopo aver preparato il pianoforte per un concerto di Pollini e appena entrato in casa, a Pescara, trova un messaggio del Maestro che lo prega di tornare subito indietro per risolvere un problema e quella che lo vede attraversare in macchina Germania e Austria sotto la neve per correre da Benedetti Michelangeli in concerto a Vienna.

Nel libro di Fabbrini, musicisti e appassionati troveranno un paradiso di storie e notazioni sul “mestiere”, ma anche i lettori meno adusi alle sale da concerto non potranno non cadere sotto il fascino di un mondo teso all’assoluto, teso come recita il sottotitolo a “la ricerca del suono perduto”.