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Viaggio nella Città delle spine

31 maggio 2018 | cristina
Viaggio nella Città delle spine

Ben Rawlence ci porta nella Città delle spine, il più grande campo profughi del mondo, con un reportage intenso e coinvolgente edito da Francesco Brioschi Editore

Un pomeriggio con Ben Rawlence e il suo straordinario La città delle spine (Francesco Brioschi Editore). Il suo libro ha la vividezza di un reportage, l’intensità, la drammaticità e il sense of humour di un grande romanzo, la precisa acutezza di un saggio. Chi lo legge vivrà per qualche giorno a Dadaab, il più grande campo profughi del mondo, un mostro di cinquecentomila abitanti al confine tra il Kenya e la Somalia, per lo più somali in fuga dal loro paese straziato da un’eterna guerra civile e invaso dai “pacificatori” kenioti ed etiopi, ma popolato anche da sud sudanesi, congolesi e kenioti poveri che nel campo sperano di trovare un aiuto a cui altrimenti non avrebbero accesso. Chi lo legge vivrà, sopravvivrà, soffrirà, amerà seguendo le vite di nove degli abitanti di Dadaab, si dannerà con i volontari e i funzionari delle Nazioni Unite, capirà con la testa, il cuore e le viscere la vita di persone che sono identiche a noi, la cui unica differenza rispetto a noi è dove e quando gli è toccato di nascere.

La città delle spine è stato segnalato come miglior libro del 2016 dal Los Angeles Times, dall’Economist e dal Washington Post, ed è stato tradotto e pubblicato in otto paesi. È in corso di realizzazione un film diretto da Richard Ladkani.

Ben Rawlence, inglese che a lungo ha lavorato per Human Rights Watch, ha passato a Dadaab quattro anni, incontrando e intervistando centinaia di persone per selezionare alla fine nove vite che dessero conto della varietà di storie e di destini che fanno di Dadaab e dei suoi cinquecentomila abitanti un mondo certo spaventoso, ma un luogo comunque e irriducibilmente umano.

Ben, che cos’è per te Dadaab?

Per me pensare a Dadaab è un po’ come pensare al mondo di Guerre Stellari:  è sì un altro pianeta, lontanissimo da noi, ma i suoi strani abitanti alla fine sono proprio come noi. Anche a Dadaab ci si innamora, si litiga coi genitori, ci si dà da fare, ci si tradisce, si cerca una via nella vita. Gli abitanti di Dadaab non sono alieni, sono noi in una situazione che noi abbiamo la fortuna di non dover sperimentare. In Europa, a Londra come a Roma, nessuno pensa all’eredità coloniale che ci siamo lasciati alle spalle. Ma se vai in Somalia vedi ovunque le tracce del passato coloniale italiano, nell’architettura, nell’urbanistica, nella lingua – tanti vecchi ancora parlano o parlavano fino a poco tempo fa l’italiano – e lo stesso vale per l’eredità coloniale britannica in Kenya. Dadaab sta a metà strada tra quel passato e noi e mostra il vero disastro che ci siamo lasciati dietro.

Dadaab è a metà strada tra la guerra civile ormai cronicizzata e la salvezza rappresentata dall’Europa, o dall’America. Ma chi vive lì cosa sa e come si immagina queste terre della salvezza?

I profughi che vivono nel campo hanno un’idea molto confusa di Europa e America. Non le distinguono. Per loro sono un’idea unica, sono la possibilità di sopravvivere, di vivere, sono una realtà sognata. La loro idea dell’Italia non è tanto e solo quella di un luogo reale, ma il nome che danno all’aspirazione a una vita diversa, a una vita intera e dignitosa.

Sognano l’Europa ma vivono in un campo, molti nel campo sono nati e non hanno mai visto altro. Che effetto ha sulle persone la vita in un campo profughi?

Il campo è strutturato come una prigione. La gente stessa che ci vive lo descrive come una prigione aperta. Gli architetti delle Nazioni Unite pensavano ovviamente a un luogo di ricovero temporaneo e non a un carcere. Il campo era pensato per accogliere, proteggere e soccorrere, ma per come funzionano le istituzioni, il controllo è cruciale e a lungo andare il controllo diventa la cosa più evidente del campo. Un’altra analogia con la prigione è che non solo il corpo è imprigionato, ma anche la mente, che va in ebollizione, pensandosi sempre provvisoria e sognando giorno dopo giorno una uscita dal campo che diventa reale solo per pochissimi.

Non sei tenerissimo neanche con i funzionari delle Nazioni Unite e con gli operatori umanitari.

Penso che sia un problema comune a tutte le occasioni in cui la burocrazia si trova a gestire grandi masse di persone. I problemi sono tali che la burocrazia riesce a funzionare solo se si dimentica la natura umana del suo oggetto. I funzionari UN non sono “il male”, loro e i rifugiati sono vittime ai due lati opposti dello spettro dell’emergenza. Cercano di fare del bene, ma i problemi sono tali che l’efficacia e il senso stesso dell’efficacia finiscono per perdersi.

Una delle paure più diffuse e propagandate è che un campo come Dadaab sia un crogiolo di fanatismo religioso e un brodo di coltura per il terrorismo islamista.

La verità è che nel campo il vincolo religioso è molto meno forte che fuori. Tutte le donne di Dadaab mi hanno confermato che a casa loro non avrebbero potuto fare tante cose che nel campo sono invece permesse, dall’andare in giro da sole al fare la spesa, fino a studiare e lavorare o dire la propria anche nella scelta del marito. In Somalia tutto questo sarebbe impossibile, vivrebbero recluse e velate. In questo il campo è uno spazio semilibero che consente una certa emancipazione.

 

Quindi in qualche modo per le donne Dadaab è un’occasione? E per gli uomini?

Questa vita ha creato nuove specie di persone. Alcuni dei capi e la maggior parte delle persone attive sono donne. Non c’è lavoro nel campo, o meglio ci sono piccole occupazioni, tutte interne alla vita del campo o al servizio delle Nazioni Unite e delle ong. Non dimentichiamoci che il Kenya proibisce ai rifugiati di lavorare, considerandoli una presenza temporanea. Così però gli uomini non hanno più uno status, non lavorano, non mantengono la famiglia, non hanno più una dimensione di clan, perché in larga parte i clan sono spappolati. I leader sono eletti e non rispondono alle tradizionali dinamiche gerarchiche dei clan.  Le donne hanno acquisito  un potere enorme rispetto alle situazioni di origine. E ciò è un bene, ma a questo si accompagna una dura crisi della mascolinità. E quindi i maschi sono più deboli, più vulnerabili, da qui la diffusione della droga, di forme di violenza reattiva, e soprattutto il numero impressionante di stupri.

E la capacità di proselitismo di organizzazioni terroristiche come al Shabab?

Mettiamola così, vista dal lato della Somalia e non dalla nostra ottica di europei, al Shabab ha numerosi argomenti dalla sua parte e quindi evidenti capacità di reclutamento. Intanto ha i soldi, può pagare chi aderisce o aiutare a mantenere le famiglie dei militanti. Non solo, al Shabab si propone come un’istanza di purezza: in un paese dove la corruzione e  il fallimento della democrazia sono così evidenti, al Shabab si pone come una risposta di moralità e integrità. Infine l’identità: al Shabab è una chiamata nazionale e tribale contro gli invasori del Kenya e dell’Etiopia, nemici tradizionali della Somalia, per non parlare delle potenze europee, che sono lì solo per rapinare risorse. Al Shabab è la realtà terroristica con il migliore radicamento territoriale anche se le sue forze sono effettivamente irrisorie, si parla di 5000 militanti. Se gli USA volessero davvero liberarsene ci metterebbero pochi giorni. Dopodiché, la penetrazione di al Shabab tra i rifugiati di Dadaab è minima. Non dobbiamo dimenticare che i rifugiati sono arrivati lì, in quel delirio di campo in mezzo al deserto, proprio per sfuggire alla guerra, al fanatismo, agli arruolamenti forzati.

Che ne è stato dei protagonisti del libro? Sei ancora in contatto con loro?

Ci sentiamo una volta a settimana via Whatsapp o Facebook. I nove protagonisti sono persone così diverse che i loro destini sono stati e sono a loro volta molto diversi, come le relazioni tra loro. Occhi bianchi è andato negli USA, e dice che fa molta fatica, ma non tornerebbe indietro. Guled e Maryam sono rimasti nel campo e con la loro parte dei diritti del libro hanno comprato un taxi, altri sono tornati in Somalia. Kheiro voleva studiare ma alla fine è rimasta incinta e ha rinunciato ai suoi sogni. Monday e Muna sono riusciti ad andare in Australia, ma arrivati lì hanno divorziato. Per quel che riguarda Dadaab nel suo complesso, in questi anni dopo la fine della scrittura del libro, “per colpa” di altre crisi umanitarie, a partire dalla Siria, l’attenzione nei confronti del campo si è spenta e le razioni sono calate del 50%, la situazione è quindi ora molto peggiore di quel che ho raccontato.

La città delle spine è tecnicamente un reportage, ma la sua struttura è tipicamente romanzesca. La relazione con il lettore è più narrativa che saggistica. Perché questa scelta?

Per me la forma è una scelta politica. Volevo comunicare la realtà di questo posto unico e strano e volevo che il lettore partecipasse con tutto se stesso. Volevo che il  lettore si commuovesse, si divertisse, e per questo dovevo adottare il più possibile i modi di una fiction, scrivere secondo i modi dei best seller, e quindi trovare storie appassionanti e coinvolgenti. In inglese un libro come il mio si definisce “non fiction”, ma io lo definirei piuttosto “non non fiction”. Volevo sviluppare storie e personaggi, volevo che il lettore si innamorasse di quei personaggi. I fatti sono tutti veri ma mi serviva una struttura che potesse accogliere i fatti e dare loro il nitore dell’esperienza diretta. Chi legge saprà dirmi se ci sono riuscito.

Ben Rawlence ha fotografato persone e situazioni che hanno poi trovato casa nel suo libro, qui sotto ve ne presentiamo alcune.

Ben Rawlence, La città delle spine, Francesco Brioschi Editore
Ben Rawlence, La città delle spine, Francesco Brioschi Editore